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ITA - New Zealand Style

Words: Paolo Govetto

  Maggio 2023
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PREMESSA

Da tempo ero incuriosito ed ammirato dalla pesca alla neozelandese. In rete si trovano moltissimi video che ritraggono pescatori della terra dei kiwi capaci di catturare trotoni da trofeo con attrezzature e ninfe leggere.

Non potendo affrontare un viaggio in Nuova Zelanda ma volendo comunque assicurarmi delle nozioni di prima mano, non potevo che rivolgermi ad Angelo Piller: indubitabile punto di riferimento della pesca a mosca in Italia e assiduo frequentatore dei corsi d’acqua neozelandesi.

 

IL POMERIGGIO DI PESCA

Subito dopo essere stato accolto nello scenario incantato di Villa Marinotti, il tempo di un caffè ingentilito da una carezza alla Bea, la cucciolotta di casa Piller, Angelo ed io muoviamo verso il vicino Piave.

Con la professionalità che lo contraddistingue, Angelo inizia a spiegarmi il set up dell’attrezzatura:

pescherò con una 9 piedi azione medium, coda 5 decentrata ed un finale da oltre 18 piedi che si chiude con un tip dello 0,14. La ninfa con cui iniziare la sessione sarà la collaudatissima Red Tag montata su amo jig del 12. A poco più di un metro da essa viene sistemato il caratteristico fiocchetto di lana bianca.

Un’ingrassata con del Mucilin verde ne preserverà il galleggiamento. La giornata è piovosa, il cielo

plumbeo e soffia un vento trasversale rispetto all’asta del fiume. Nel tratto scelto da Angelo, il Piave ha un ampio letto con ciottoli variopinti ed una buona portata conseguente alle piogge delle ultime settimane.

L’inverno è stato particolarmente siccitoso ed i bassi livelli hanno avuto il pregio di preservare i letti di frega. Si, perché in queste acque ci sono pesci veri. Marmorate ed ibridi nate e cresciute nel Piave: pesci rustici che magari sono sopravvissuti alla spaventosa ondata di piena di Vaia che, diversamente, ha decimato i temoli.

Ci avviciniamo alla sponda sinistra con cautela. L’acqua è leggermente velata. Gli occhiali polarizzati ci consentono di scrutare il contrasto di un sasso più scuro che si staglia sul fondo meno maturo. Poco a sinistra ci pare di intravedere una sagoma che muove sinuosa. Non è certo che si tratti di un pesce ma in caso di dubbio è sempre meglio tentare. Mi posiziono tra i 10 ed i 12 mt a valle del bersaglio mentre Angelo è all’altezza del target, anche se ampiamente fuori dal suo cono visivo. Inizio a volteggiare la coda e immediatamente mi stupisco per la quasi impercettibilità del fiocco di lana. Assicuro che una sedge costruita con materiali rigidi disturba maggiormente il lancio e non consente di utilizzare un tip 5X pena le infauste parrucche. Come detto c’è del vento che disturba l’azione. Sono cauto ed assolutamente consapevole che se facessi transitare la coda sopra la testa di quello che appare un bel pesce, certamente lo metterei in allarme. Dalla sua prospettiva, che comprende me ed il target, Angelo mi suggerisce le correzioni da fare. Dopo qualche assestamento il lancio è buono: la ninfa si inabissa a un metro e mezzo circa più a monte della sagoma. Lo strike bianco si mimetizza perfettamente tra le bolle superficiali anche se lo localizzo distintamente. Scende lento quando ad un tratto, ecco che si inabissa. E’ un istante, ma anche adesso che scrivo, rivivo con la gioia di un bambino l’istantanea adrenalinica di quella frazione di secondo. Angelo urla perentorio VAI, ma contemporaneamente al suono della sua voce si è già levata la mia ferrata decisa. Ora non ci sono dubbi, quella sagoma che si intravedeva era un pesce, ed anche bello grosso. Parte deciso verso valle prendendo la corrente di traverso. Forzarlo minimamente significa

strappare il finale. Lo assecondo correndo verso valle, sfruttando al meglio l’azione della canna. Sento le testate potenti di un pesce che lanciandosi nella fuga lateralmente, se ce ne fosse bisogno, si rivela in tutta la sua stazza: è un trotone!!! Come me e più di me, anche Angelo corre verso valle.

 

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Contestualmente mi suggerisce di mettere i piedi all’asciutto e di non entrare in acqua. Si tratta di un accorgimento risolutivo.

Come noto in ambiente liquido i suoni si propagano venti volte più velocemente rispetto all’aria, sicchè rimanere con i piedi all’asciutto consente di rendere il pesce più mansueto. Un piccolo trucco tra i tanti del Piller, che fanno la differenza, mi permette di portare il pesce verso riva e senza esitazioni Angelo lo infila nel guadino. E’ enorme, fa fatica ad entrare. In principio sembra una marmorata purissima tuttavia qualche puntino lungo le linee laterali evoca l’intervenuta ibridazione. E’ lunga ma anche molto larga. E’ grassa con delle pinne sviluppatissime. La testa è imponente ed i denti aguzzi non hanno segnato il sottile finale, giacchè la ninfa, si è perfettamente conficcata nella parte più dura di quella bocca così solida.

L’adrenalina mi pervade e la gioia è impagabile. Facciamo riprendere la guerriera ossigenandola ampiamente. La disturbiamo solo per il tempo necessario ad immortalarla nella sua immane bellezza prima di restituirla al suo Fiume. Io ed Angelo ci abbracciamo con un sorriso degno della migliore pubblicità per dentifrici.

Una cattura come questa vale una stagione di pesca, ma il pomeriggio è ancora lungo e continuiamo.

Proviamo in diversi spot dove posso apprezzare la duttilità d’impiego della tecnica che sto sperimentando.

Ad un tratto giungiamo in un punto dove l’acqua sprofonda e raccoglie due distinti rami del corso. Non vediamo nulla ma il senso dell’acqua suggerisce che si tratti di un luogo promettente. Come larga parte degli spot promettenti non è agevole. L’azione di pesca è perturbata da degli arbusti particolarmente alti sulla sponda sinistra in cui ci troviamo oltre che da dei rami che spiovono sulla superficie dal lato opposto.

Per Angelo non sarebbe un grosso problema. Lancia con la stessa naturalezza ed efficacia sia con la mano destra che con quella sinistra. Io invece devo ricorrere ad un rovescio per di più accovacciandomi sulle ginocchia per guadagnare spazio e non far rumore. Si sa, in particolare le marmorate sono sensibilissime ed un passo maldestro può vanificare la cattura. Il primo tentativo è un disastro: la ninfa finisce sui rami che penzolano sopra l’acqua. Con calma e senza trazioni da tiro alla fune riesco a liberarla preservando il posto. Il secondo non finisce meglio: questa volta la ninfa si conficca in un arbusto alle mie spalle. Angelo mi sbriglia da questa situazione intricata. Come accennato il finale è di oltre 18 piedi e non mi aiuta. In ogni caso occorre insistere e finalmente riesco a prendere le misure sfruttando la lunghezza del tronco del corpo. Il primo lancio a monte non produce esiti. Riprovo tenendomi ancor più sotto riva. Il fiocco di lana in principio fa bella mostra di sé ma improvvisamente sprofonda con un guizzo deciso. La ferrata è istantanea. Di fronte a me si schiude una scena grandiosa. Il pesce dirige verso monte e si esibisce in un salto che lo mostra in tutta la sua bellezza. E’ una marmorata ed anche in questo caso si tratta di una trota di taglia. Mi alzo in piedi ed il pesce cambia direzione andando verso valle. Intuitivo sottolineare che l’amo senza ardiglione ed il finale sottile impongono di bilanciare necessità contrastanti: mantenere la trazione col pesce senza esagerare per evitare sciagurate rotture. Anche in questo caso l’azione temperata della canna mi aiuta a contenere le potenti testate del trotone. Ancora un volta posso sperimentare l’efficacia di rimanere con i piedi fuori dall’acqua in fase di recupero della preda. Il pesce sembra non riconoscere da che parte giunge chi lo minaccia ed è effettivamente diventa molto più agevole condurlo verso riva. Angelo si fa parte attiva ed insacca nel guadino la trota. Quanto a dimensioni è poco più piccola e meno imponente rispetto alla prima, ma che livrea! Estasiati ammiriamo uno stupendo esemplare di marmorata. La testa possente, lunga ed affusolata, quasi a chiudersi ad uncino, non lascia dubbi che si tratti di un maschio. Le pinne sono ampie e sviluppate, la muscolatura tonica. Di fronte a noi abbiamo sua maestà, la regina delle acque di fondo valle: stupenda, perfetta, integra in ogni sua parte.

Quasi indegnamente mi accosto ad una simile meraviglia per documentarne l’incontro con una foto che porterò tra i ricordi più cari della mia vita da pescatore. La restituiamo al Piave ringraziandola per essersi concessa.

 

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Che dire, ho la consapevolezza di aver vissuto un pomeriggio straordinario. Continuo a pescare per un’altra oretta ma sono ampiamente appagato e veramente non potrei chiedere di più. Il tempo di fare altre due catture di pesci di taglia più piccola, a riprova della vitalità del Piave, ed è ora di mettere la canna nel fodero. Ciò che avevo visto nei filmati della lontana Nuova Zelanda è diventato realtà.

Mi congedo dal Fiume non omettendo di ringraziare Angelo. Erano anni che volevo fare questa

esperienza di pesca primaverile insieme a lui tuttavia, impegni di lavoro, clima avverso o mille altri situazioni della quotidianità ci avevano indotto a rimandare. Devo dire che l’attesa è stata ricompensata oltre ogni aspettativa. Di certo non ha bisogno di presentazioni e benché meno della mia recensione, in ogni caso è un piacere rimarcare quanto Angelo Piller sia affabile, accogliente, disponibile, serio oltre che un autentico professionista. Chiunque voglia avvicinarsi o approfondire temi riguardanti la pesca a mosca, avrà la garanzia di affidarsi a competenze autentiche, maturate e consolidatesi in anni di esperienza in diversi scenari, con diverse tecniche, per di più rafforzate da un approccio inclusivo, scevro da inutili dogmatismi.

 

RIFLETTENDO….

Attenuatasi l’adrenalina della pescata, nei giorni a seguire ho modo di fare delle riflessioni sull’esperienza che ho vissuto. Naturalmente si tratta di considerazioni del tutto personali che certamente non hanno portata definitoria. E’ altresì necessario premettere che qualsiasi opinione è inevitabilmente contaminata dalle esperienze di vita di chi l’ha maturata. Per quanto mi riguarda, la pesca a mosca mi accompagna dall’adolescenza e fino a pochi anni fa mi dedicavo assiduamente ad immersioni subacquee in ambienti ostili come relitti, grotte o a profondità piuttosto marcate. La curiosità ed il desiderio di approfondire ciò a cui mi dedico, mi ha condotto a praticare un sistema d’immersione concepito intorno alla metà degli anni ’90 da speleosubacquei americani nelle grotte di Wakulla Springs, nel nord della Florida. In quel periodo, anche in Europa la comunità subacquea era impegnata in esplorazioni estreme. Per citare l’Italia, erano frequenti le spedizioni nella sorgente del Gorgazzo o nel sistema di grotte di Valstagna. Purtroppo gli incidenti si succedevano e molti di essi avevano esiti fatali. Parallelamente, gli statunitensi riuscivano a completare con successo delle esplorazioni in grotta con penetrazioni di diversi chilometri nelle v iscere della terra, come detto in ambiente subacqueo. I risultati stupirono il mondo tanto che quel ristretto gruppo di speleosubacquei, venne invitato in Europa per illustrare i risultati ottenuti. Durante una conferenza, il loro esponente più carismatico, George Irvine III, per descrivere ciò che facevano ricorse ad una frase divenuta celebre nell’ambiente:“if you aren’t doing it right, don’t do it at all” che, ben presto, in classico stile statunitense, venne riassunta nell’acronimo D.I.R. (doing it right) Il significato descrive banalmente una verità molto spesso disattesa: “se una cosa non la stai facendo bene non farla affatto”.

Proseguendo nella spiegazione, i subacquei americani fecero riferimento, tra l’altro, a due punti chiave che gli consentirono di ottenere gli straordinari successi esplorativi: consistency e team awareness.

In via di prima approssimazione, tutto ciò può apparire quanto di più lontano ed inconferente dalla pesca a mosca. In verità, nella pesca alla neozelandese ho rivisto quell’approccio positivo e pragmatico tipicamente anglosassone che ho vissuto nei mei trascorsi subacquei.

 

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CONSISTENCY

Letteralmente sta a significare coerenza. Le accezioni con cui riferirsi ad essa sono duplici. Quella più stringente è una sorta di esenzione da contraddizioni rispetto ai propri principi ed alle proprie pratiche; quella più elastica, e che qui dobbiamo prendere in esame, fa riferimento alla consistency come adattabilità rispetto ad un solido punto di partenza.

Nel caso della pesca alla neozelandese si percepisce immediatamente che è un sistema adattabile o, come direbbero gli anglosassoni: “consistent”. Contrariamente alle tendenze più diffuse negli ultimi anni non utilizza strumenti iperspecialistici destinati a soddisfare una sola tecnica di pesca. Se guardo ai miei “giocattoli” mi accorgo di avere canne da secca, quelle da streamer, quelle da ninfa. Analoga articolazione per i mulinelli e le code. Il risultato è una proliferazione di attrezzature che, in presenza di una specifica situazione rendono al meglio ma, al variare di essa, perdono efficacia o addirittura sono inutilizzabili. Per fare un esempio, oggi è di gran moda pescare le trote a streamer con attrezzature extra size: 9 piedi coda 9. Fino a poco tempo fa era un arsenale destinato ai lucci. Nessun dubbio che se esco nel grande fiume di fondo valle con l’acqua torbida si tratta di una scelta obbligata (the right tool for the right job), tuttavia se quello stesso fiume non avesse una caratterizzazione così marcata e magari la portata fosse normale, potrei attendermi una bollata o una schienata tipica delle ninfate poco sotto la superficie. A quel punto mi troverei nella condizione di dover rinunciare ad insidiare quel pesce perché la mia attrezzatura si dimostrerebbe assolutamente sovradimensionata.

All’opposto, potrei decidere di fare una sessione dedicata alla ninfa ceca con una 10 piedi coda 2.

Improvvisamente un trotone esce in caccia. E’ evidente che fronteggiare un pesce simile con una canna del genere sarebbe velleitario.

Si potrebbe obiettare che è sufficiente cambiare canna e mulinello. Del resto gli zaini sono attrezzati per ospitare più attrezzi peraltro non troppo pesanti. E’ sicuramente un’opzione che, a mio avviso, si scontra con la dinamicità delle situazioni di pesca. Spesso, molto cambia in poco tempo e poco spazio. Saper reagire tempestivamente in taluni contesti fa la differenza tra chi cattura e chi resta a mani vuote.

Nella mia esperienza di pesca alla neozelandese ho impiegato una canna da 9 piedi coda 5: un attrezzo versatile che in pochi istanti consente di passare dalla pesca a ninfa a quella a secca fino a degli streamer, non troppo esagerati, semplicemente variando diametri e lunghezza del tip, utilizzando o meno il fiocco di lana.

 

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TEAM AWARENESS

Letteralmente sta a significare consapevolezza della squadra. I subacquei di Wakulla Springs si immergevano in squadre composte da tre elementi. Diversamente i subacquei europei affrontavano le esplorazioni in solitaria. Premesso che entrambi erano animati dall’aspettativa di minimizzare i rischi, le scelte operative erano diametralmente opposte. Quelli del vecchio continente portavano con sé attrezzatura ridondante in modo che, in caso di guasto, avrebbero potuto far affidamento su di essa. Gli statunitensi riducevano al massimo l’equipaggiamento individuale, affidandosi ai propri compagni d’immersione nel caso in cui ci fosse la necessità di far fronte a possibili emergenze. Ebbene, i risultati hanno confermato ciò che la saggezza popolare riconduce al famoso detto che l’unione fa la forza e che i subacquei D.I.R. sono soliti ricordare: “the team is my back up”

Muovendo da queste considerazioni, che peraltro riverberano perfettamente tratti culturali di popoli

diversi, mi addentro in un tema piuttosto scivoloso, che io sappia del tutto inesplorato nella letteratura della pesca a mosca in Italia. E’ possibile parlare di approccio di squadra?

Nella percezione comune, la nostra attività ha una dimensione collettiva nella condivisione di luoghi, di momenti conviviali, nelle trasferte in auto, negli incontri nei club e così via ma che nella sua fase attiva, rimane sempre e comunque individuale, per di più condita da un immancabile spirito di competizione.

Osservando i video della pesca alla neozelandese, date un’occhiata ai reel di Angelo, si può notare che nella sua forma più autentica si sviluppa coinvolgendo non solo il pescatore attivo ma anche chi lo accompagna. Quest’ultimo svolge la cruciale funzione di avvistare, da posizione defilata e magari rialzata, i pesci verso cui indirizzare le mosche. Si tratta di una strategia vincente, soprattutto quando abbiamo a che fare con pesci particolarmente sospettosi e smaliziati come le marmorate. Peraltro, una volta allamata la preda, chi avvista e segnala le correzioni nel lancio, può dedicarsi ad insaccare il pesce nel guadino.

Agendo in questo modo non soltanto le possibilità di catture importanti aumentano vertiginosamente ma anche la gioia o la frustrazione diventano motivo di condivisione e/o recriminazione. Insomma, così praticata, la pesca amplifica ancor di più la connotazione sociale che cementa amicizie ed esperienze.

 

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E’ PESCA A MOSCA?

Addentrandomi nel ginepraio che divide coloro che considerano la pesca alla neozelandese non degna di essere ricompresa nella pesca a mosca e quelli che invece non ne vedono intaccata l’essenza, sento di schierarmi convintamente con questi ultimi per diverse ragioni.

Aderisco all’orientamento per cui, l’esercizio della pesca a mosca, necessariamente deve esplicarsi con il volteggio della coda di topo. Non me ne vorranno i praticanti della pesca a filo, che io stesso ho sperimentato, ma lanciare dignitosamente è una competenza essenziale e caratterizzante per sostanziare ciò che si sta facendo. Muovendo da questa premessa e dopo aver apprezzato in concreto l’azione di pesca, non posso che sottolineare quanto le dinamiche della pesca alla neozelandese siano sovrapponibili a quelle della pesca a mosca secca ancorchè l’esca viaggi sotto la superficie.

Anche con questa tecnica è importante evitare il dragaggio. Ne consegue che praticare correttamente il mending è un’altra competenza irrinunciabile quanto più le linee di corrente sono diverse ed il lancio distante. Peraltro è possibile implementare un’abilità che vedo utilizzare molto poco ma che se realizzata ad arte, può costituire un asso nella manica: il give the line. Anche qui, per maggiori informazioni fate uno squillo ad Angelo Piller.

Per ultimo, anche quel geniaccio di Francesco Palu’ percepì l’efficacia del sistema, rivisitandolo a modo suo con la sorprendente “Paluana.

 

CONCLUSIONI

Un professore ripeteva spesso: “più sai, più poi!” Nel corso dell’attività professionale ho coltivato il concetto di superiorità informativa. Interessanti letture sui servizi di intelligence di mezzo mondo,

evocano concordantemente il motto “need to know” (letteralmente bisogno di conoscere). In altre parole, detto in italiano più o meno aulico, in inglese o in qualsiasi idioma, per qualsiasi attività umana la conoscenza è fondamentale. Tanto più ampie ed approfondite sono le informazioni di cui disponiamo, tanto maggiori sono le opportunità da poter cogliere. Ciò è valido anche nella pesca ed ognuno di noi lo sperimenta nel diverso agio con cui approccia ad un corso d’acqua per la prima volta piuttosto che in un ambiente noto. La pesca alla neozelandese è certamente una risorsa in più da mettere in campo in talune situazioni per incrementare le opportunità di catture importanti, disponendo di un’attrezzatura non marcatamente orientata e con la possibilità di transitare a diverse tecniche in pochi istanti. Se poi viene attuata nella sua forma più autentica, formando una squadra, direi che può uscire qualcosa di curioso e divertente.

 

Tight lines a tutti.

Paolo Govetto

 


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