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Quel giorno di fine maggio

Racconto 
Italia  06/02/01 di Gianfranco Pelliciari (Von Pellix)



Quel giorno di fine maggio alzarsi prima dell'alba richiese, da parte mia, un estenuante sforzo di volontà. Affacciatomi alla finestra della sala e guardato il cielo per giustificare quella levataccia, rabbrividii per quello che vidi. Il tempo non prometteva nulla di buono, facendo sfoggio di uno spesso strato di grigie nuvole cariche di pioggia, mentre una sottile acquerugiola aveva già iniziato a cadere, nascondendo i particolari del paesaggio più lontani come dietro una sottile cortina di nebbia perennemente in movimento. Tutto l’orizzonte si presentò ai miei occhi uniformemente plumbeo tranne a sud dove, sulle cime degli Appennini modenesi, una esile linea azzurra mi indicò una porzione di cielo libero.
La giornata si prospettò così sin da subito particolarmente uggiosa, ma con la larvata promessa di un possibile miglioramento.
Forte di questa intima convinzione, con ancora le palpebre cariche di sonno calate "a mezz’asta" sugli occhi, scesi in strada per caricare l’attrezzatura da pesca in macchina, levando una sommessa preghiera al cielo affinchè concedesse una tregua sul maltempo mentre il vento, incurante delle mie invocazioni, continuava a soffiare incessante. Il pensiero dell’acqua fredda in cui avrei dovuto sguazzare per quasi tutta la giornata, affacciatosi alla mente d’improvviso, con un sobbalzo mi fece rabbrividire. Nel frattempo, mentre mi accingevo a poggiare l’attrezzatura da pesca nel bagagliaio, la nebbia, tramutatasi in una pioggerella sottile e fredda, incominciò implacabile ad imperlare il parabrezza della macchina.
Durante il percorso della tortuosa strada che mi avrebbe portato sul torrente scelto per quell’uscita di pesca, la mia attenzione fu catalizzata dal paesaggio lunare che si presentò mano a mano alla luce dei fari. I particolari comparivano così all’improvviso dal buio, come fantasmi che si materializzassero per incanto, che solo la consapevolezza della loro assoluta immobilità impedì al mio cuore di sobbalzare continuamente.

La macchina fendette decisa quella sorta di nebbiolina in perenne movimento, le cui dita fredde si protendevano sull’asfalto quasi animate di volontà propria, come fossero costantemente tese a ghermire i malcapitati che si trovassero a passare a tiro per trascinarli con se nell’oscurità incombente. Il tergicristallo, con il suo movimento ipnotico, continuò a spazzare via le goccioline di pioggia sottile che proseguivano a depositarsi sul parabrezza e che, radunandosi come le perle di una collana, parevano sfilarsi senza sosta dal filo che li univa per poi rotolare sul vetro fino a terra.
Il viaggio per Pievepelago fu particolarmente lungo, quella volta. Ad ogni chilometro la mia preghiera, iniziata in sordina, divenne sempre più pressante, mentre di pari passo la disperazione cresceva.
Poi, all’improvviso, al termine di una stretta curva, trovandomi davanti il cielo terso, frenai di colpo, accostando la macchina al ciglio della strada. Superato il basso strato di nuvole che coprivano l’intera vallata, uno spettacolo fantastico si presentò ai miei occhi: alle mie spalle, quasi fosse stata tracciata una netta linea di demarcazione, un soffice tappeto grigio che si stava appena colorando di tenui, calde sfumature per il sole nascente; davanti a me un cielo limpido e terso, allo zenith ancora di un blu profondo, che iniziava anch’esso a degradare in un caldo rosa.
Ancora una volta la bellezza della natura mi colpì allo stomaco, lasciandomi senza fiato. La preghiera fino ad allora levata al cielo per propiziare una giornata di pesca si trasformò così in una espressione di gioia profonda indirizzata al Creatore, che mi aveva concesso di essere lì ed in quel momento e per avermi permesso di ammirare uno spettacolo così bello e, nel contempo, così "straordinario" nella sua ordinaria quotidianità..
Dopo parecchi minuti, come risvegliandomi da una sorta di trance, risalii in macchina e ripresi il viaggio, sicuro che quella giornata sarebbe stata speciale.
Giunto sul luogo di pesca e fermata la macchina nella piazzola di sosta, mentre lasciavo il nido sicuro e caldo dell’abitacolo per immergermi nel buio del bosco non ancora lambito dall’alba, un altro brivido mi percorse la spina dorsale. Subito il pensiero volò al lettone caldo che avevo lasciato più di un’ora prima e che sicuramente accoglieva ancora il corpo morbido ed addormentato di mia moglie. Mormorando fra me e me sull’opportunità o meno di rimanere abbracciato a lei invece di uscire con quel tempo da lupi per pescare qualche stupida trota, mi preparai a scendere per il sentierino che mi avrebbe portato sul greto del torrente.
Non appena giunto ansante sulla riva sassosa, tutto il malessere precedentemente accumulato d’incanto sparì, lasciandomi solo con l’impazienza di montare la canna per il primo, fatidico lancio.
Mentre mi apprestavo a preparare l’attrezzatura, il buio della notte, ancora dominante nel tunnel boscoso che avvolgeva il torrente, cominciò a lasciare timidamente il posto alla luce del sole, non ancora completamente sorto. Una miriade di colori caldi, lentamente animò di strani movimenti le rocce e gli alberi che mi circondavano.
Mi rifermai, ammaliato, ad ammirare quel miracolo che, a così poca distanza di tempo, si ripresentava ai miei occhi. Il paesaggio, reso cupo delle ombre della notte, perse d’un canto quell’immobilità che da sempre incute in ogni uomo l’atavico timore del buio ed in quello che in esso si cela, quasi che la natura si fosse risvegliata in quel momento, come una pigra gatta che stirasse sorniona le membra intorpidite dal sonno per apprestarsi ad iniziare un’altra giornata. I rami degli alberi incominciarono a muoversi dolcemente, accarezzati dalla brezza mattutina ed il canto degli uccelli nascosti nel bosco, fino ad allora un dolce sottofondo insieme al mormorio dell’acqua, prese vigore.
Anche il torrente cominciò ad animarsi. L’immobilità della buca in cui si specchiava la massiccia sagoma della Piramide iniziò ad essere così interrotta da qualche timida onda circolare che, lentamente, si allargava nell’acqua, segno inconfondibile dell’attività che si celava sotto di essa.
Persi d’incanto la mia immobilità e, freneticamente, incominciai a cercare nella fly-box una mosca che si adattasse alla situazione, scartandone nel giro di qualche frazione di secondo almeno una cinquantina. La scelta cadde così su una alcina in cul de canard chiaro, montata su un amo del 16, da sempre una delle mie preferite.
Avvicinatomi furtivamente quasi al bordo dell’acqua, mi inginocchiai e, fatti un paio di falsi lanci per distendere la coda, posai delicatamente la mosca al limite fra la corrente ed il fermo, a monte dell’ultima bollata che aveva interrotto la regolarità della superficie dell’acqua.
La mosca non ebbe quasi il tempo di posarsi che una forma scattante fendette l’acqua dal basso, precipitandosi ad inghiottire la mia mosca. La ferrata fu fulminea e subito sentii la trota puntare decisa verso il fondo per sottrarsi alla cattura. Dopo una breve lotta, una bellissima fario dalla livrea scura puntinata di rosso affiorò in superficie, facendosi ammirare in tutta la sua selvaggia bellezza. La ammirai per alcuni secondi e poi, slamatala con cura, la riaffidai alle acque accoglienti del suo torrente. Una volta in acqua, quella fiera combattente rimase un attimo ferma a pinneggiare sorniona nella debole corrente del sottoriva per poi, una volta riacquistate le forze, scattare con un guizzo verso il centro della buca.
Quella fu la prima di una bella serie di catture che si susseguirono in quella splendida giornata … ma questa è un’altra storia.




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