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La terra dei giganti

Racconto
Alaska  06/02/01 di Fabrizio Moglia



Un altro anno è passato ed un altro desiderio si è avverato.

La prima volta che tornai dall’Alaska ne rimasi tanto affascinato da sentire un fortissimo desiderio di condividerLa con mia moglie e le mie bambine, nella segreta speranza che, se questo fosse successo, sarebbe stato un tassello importante nel mosaico che, lentamente, sto tentando di comporre per la mia vecchiaia.

Dopo il primo viaggio parlai e raccontai molte cose alla mia famiglia insinuando il tarlo della curiosità ed appena proposi di tornarci insieme ottenni risposte entusiaste.

Così mi ritrovai ad organizzare un viaggio poco dopo averne terminato un altro.

Fabrizio Moglia



Dopo mesi di preparativi e di discussioni sul tipo di abbigliamento, su tutte le cose da portare distinguendo quelle indispensabili da quelle utili per poi scartare quelle superflue, finalmente mi ritrovai all’aeroporto di Anchorage insieme a tutta la famiglia pervaso da un miscuglio di sentimenti in cui la gioia di essere li era vagamente minata dal timore che i giorni che ci aspettavano fossero troppo impegnativi per le mie figlie che, a tre e sette anni, potevano vivere quell’esperienza come una di quelle da ricordare, nel bene e nel male.
Passammo la notte in un confortevole albergo poco lontano dall’aeroporto ed il mattino seguente ci concedemmo un breve momento di shopping in attesa dell’aereo che ci avrebbe portati verso la nostra destinazione.
Al pomeriggio, dopo una quarantina di minuti di salti e scrolloni, il nostro aereo atterrò a Valdez dove ci attendeva Buch, un uomo di bassa statura e con la capacità di entrare in sintonia immediata con le mie bambine nonostante loro non parlassero inglese ne lui parlasse italiano.
Come durante il viaggio precedente fummo accompagnati ad un negozio di articoli da pesca sul cui tetto troneggiava una statua multicolore raffigurante un salmone. Qui acquistammo le licenze di pesca per me e per mia moglie quindi ritornammo al porto e qui dopo un paio d’ore di attesa, finalmente, ci venne a prendere Gary che rispetto all’anno precedente ed in seguito alla scissione dal suo socio aveva cambiato mansione, lasciando la cucina per pilotare la barca che nei giorni successivi ci avrebbe scarrozzato per il Prince William Sound.
Durante l’ora circa di navigazione verso l’Emerald Cove Lodge ci concedemmo alcune soste per osservare le aquile dalla testa bianca e qualche lontra marina. Mi accorsi che questi animali suscitarono un notevole interesse nelle bambine ed anche in mia moglie che rimase letteralmente ammaliata dai grandi rapaci, signori incontrastati di questi luoghi.
Durante il tragitto potemmo osservare il cambiamento di colore e di trasparenza dell’acqua che, vicino al porto di Valdez, era lattiginosa a causa di un paio di fiumi glaciali che qui sfociavano mentre, più ci si allontanava più diventava trasparente. Di tanto in tanto la piatta superficie dei fiordi era rotta dal salto di qualche salmone che sembrava darci il benvenuto.

Quando giungemmo di fronte al lodge passarono tutti i timori che mi avevano seguito durante tutto il viaggio e mi sentii davvero in Alaska.

Il cielo grigio ed uniforme lasciava presagire un imminente pioggia che fu preceduta da una notevole attività dei mosquitos, il lodge si stagliava bianco contro lo sfondo verdissimo della fitta foresta di conifere che si estendeva sino alle pendici dei monti retrostanti, le cui vette, seppur non altissime, erano incappucciate dalle nubi. Nell’acqua bassa antistante la costruzione un numero impressionante di salmoni saltava in continuazione e nei giorni successivi potei osservarli da vicino e con attenzione giungendo alla conclusione che non sempre i pink salmon depongono le uova in acqua dolce infatti vidi molte femmine deporre uova nelle basse acque del fiordo. Non riuscii a capire se queste venivano fecondate e non ho idea se la deposizione in acque salse può essere produttiva ma sono certo che non tutti i pesci risalgono i fiumi.

Al lodge ci sistemammo in due camerette in legno, come d’altronde tutto era, poi scendemmo in sala per uno spuntino ed incontrammo gli altri ospiti.

Marcye, la cuoca, era una donna di Washington di una quarantina d’anni e piuttosto corpulenta che simpatizzò subito con le mie bimbe e nella settimana della nostra permanenza imparò più parole in italiano di quante ne impararono le mie figlie in inglese.

Jack e Fred erano due simpatici vecchietti della Virginia che trascorrevano l’intera estate artica al lodge aiutando Gary nella gestione in cambio di un soggiorno gratuito. Mi colpirono per i loro modi duri ma sempre disponibili, per l’amore per la natura e per il consumo di vodka.

Paul, l’unico ospite pagante oltre a noi, era un dentista di Milan, Virginia, che trascorreva parte delle sue vacanze al lodge per poter osservare quel luogo selvaggio e per mia colpa, o forse merito, si appassionò alla pesca. Trascorremmo parecchio tempo insieme e facemmo lunghi discorsi sulle differenze tra i nostri paesi ed, ovviamente, sulla pesca.

Il primo mattino ci svegliammo molto presto e prima delle otto eravamo tutti pronti per la colazione e per partire per qualche avventura. Dopo una ricca colazione all’americana attendemmo che Gary fosse pronto, e per questo trascorsero due ore, poi in barca ci avviammo verso un fiume che sfociava in mare in un territorio che i locali chiamano comunemente terra degli orsi.
L’alta marea permise alla barca di risalire il corso d’acqua per almeno un chilometro.
Ci ero già stato un’anno prima ma trovai molte differenze legate alla stagione avanzata ed alla moltitudine di pink salmon ammassati in quell’area.
L’anno precedente, con gli amici Alberto, Beppe e Livio, avevamo visto tanti pesci e di comune accordo avevamo raggiunto la conclusione che in nessun altro posto al mondo poteva essercene una tale concentrazione.
Quello che vidi con la mia famiglia non era neanche lontanamente comparabile: milioni di pesci stazionavano alla foce del fiume riempiendo ogni più piccolo spazio e rendendo la pesca assolutamente impossibile perché appena lo streamer cadeva nell’acqua si impigliava in qualche pesce.
Quel giorno mi divertii ad osservare mia moglie e mia figlia Giulia catturare e rilasciare un’infinità di salmoni e passai il mio tempo a fare fotografie e filmati, a slamare i poveri animali che venivano impietosamente allamati ovunque tranne che in bocca ed a sciogliere nodi e pasticci.
Fu una buona giornata ed aiutò la mia famiglia a respirare particelle d’Alaska anche se in me cominciò la frenesia da Silver infatti non avevo attraversato mezzo mondo per catturare pescetti da due o tre chili ormai stremati ma per insidiare il più combattivo ed elegante dei salmoni.
Sulla costa nord occidentale degli Stati Uniti risalgono cinque tipi di salmone ed alcuni altri pesci anadromi come le Dolly Varden e le Steelhead. La risalita, normalmente, inizia a maggio con le prima ondata di Steelhead, una trota iridea che ha assunto abitudini marine ma che, come i salmoni, risale i fiumi per la riproduzione per poi ritornare al mare. I primi salmoni a risalire, nel mese di giugno e luglio, sono i Pink ed i Dog che gli alaskesi hanno ribattezzato Humpy e Chum; di questi il chum, se fresco, è un ottimo combattente e raggiunge taglie di tutto rispetto sino a circa dieci chili. Luglio è il mese del King Salmon o Chinook, il più grande e potente di tutti i salmoni; raggiunge taglie di quaranta e più chili e risale fiumi gonfi di acqua e velocissimi sino a portarsi in laterali dalla corrente più moderata e dall’acqua meno fredda per la deposizione. Nella stesso periodo del King risale anche il Red o Sockeye, pesce divertentissimo da pescare quando fresco e bellissimo da vedere quando maturo per la riproduzione grazie a colori difficilmente descrivibili ed immaginabili in un pesce.
L’ultimo ed il migliore a risalire è il Silver Salmon o Coho. Tra tutti è sicuramente il più aggressivo ed il più combattivo ed averne in canna uno da sette od otto chili è un’emozione unica.

Felice nel vedere la mia famiglia entusiasta dei luoghi che amo ma ansioso di pescare i silver passai altri due giorni di attesa.

Durante il primo andammo a navigare tra gli iceberg antistanti il Columbia glacier, il secondo ghiacciaio al mondo per dimensioni ed osservammo un enorme blocco di ghiaccio, alto almeno trenta metri, completamente azzurro e trasparente, in netto contrasto cromatico con gli altri iceberg che lo attorniavano. La bellezza di quelle immagini è indelebile nella mia memoria e sulle tante fotografie che riuscii a scattare.

Il secondo giorno chiesi a Gary di portarci al Billy Hole, un crepaccio nelle montagne da cui scendeva un torrente poco profondo e cristallino in cui speravo di trovare qualche dolly varden. La barca ci lasciò sulla spiaggia all’estuario del fiume e, siccome la marea era ancora alta, iniziammo la risalita camminando faticosamente in mezzo alla foresta nell’unico passaggio disponibile, una pista degli orsi tappezzata da resti di pesce semidivorato e da escrementi, segno inequivocabile della presenza numerosa dei grandi plantigradi.
Dopo alcune centinaia di metri in cui Jack e Fred furono di grande aiuto nel tenere o portare le bambine durante i passaggi più impegnativi, ci trovammo di fronte ad una parete di roccia che ci impediva di continuare il nostro cammino. Sapendo che la marea sarebbe scesa di alcuni metri nelle ore successive lasciando scoperto un vasto ghiareto che avremmo potuto percorrere senza problemi per ritornare verso la barca, ci sedemmo tra gli alberi ed aspettammo.

Sapevo che le nostre guide erano armate ma non ero affatto tranquillo di stare in attesa proprio in un punto in cui i grandi grizzly transitavano per andare al fiume a pescare ed ebbi davvero paura.
Nonostante il timore ascoltai i rumori e gli odori della foresta, osservai la mia famiglia a proprio agio in quella terra selvaggia proprio come la famigliola di lontre terrestri che sulla sponda del fiume stava giocando e mi sentii completamente libero.

Quando l’acqua scese cominciammo a camminare lungo il fiume e ci fermammo poco dopo per pescare e, anche qui, passai la giornata a guardare e slamare pesci alle mie donne. Rispetto a due giorni prima le mie possibilità di pesca erano ancora ridotte in quanto, nel torrente del Billy Hole , l’acqua era molta meno dei pesci e non amando pescare a "strappo" assaporai fino in fondo quel maestoso spettacolo di vita e di morte che la natura ci stava offrendo.
Durante la lenta passeggiata verso l’estuario ci fermammo più volte a pescare ed imparai una grande verità da mia figlia.
Stava continuando ad agganciare pink uno dopo l’altro quando un piccolo silver di circa tre chili abboccò alla sua lenza e con non poca fatica riuscì a recuperarlo. Un bel pesce, fresco ed argentato, era adagiato sulla sponda mentre tutti si complimentavano con Lei ed io lo slamai e lo uccisi convinto che essendo il Suo primo Silver, Giulia avrebbe gradito gustarlo per cena.
Mi sbagliai e di tanto e mi figlia con gli occhi umidi mi chiese "Papà, perché lo hai ucciso ? Cosa ti ha fatto ?"
Fu come una scudisciata bruciante ed inaspettata e la cicatrice credo rimarrà, però mi fece capire l’essenza unica e vera del catch and release.
Spesso tra pescatori si perde tempo nel dissertare se sia più giusto trattenere o rilasciare il pesce, oppure in quanti capi sia logico uccidere e tante altre discussioni che si rivelano, spesso, astratte e teoriche.
A me lo ha spiegato una bambina di sette anni. E’ giusto trattenere un pesce o più pesci, e la quantità è assolutamente non importante, quando ne hai bisogno e, ovviamente, parlo di vera necessità di carattere vitale; non quella vana ed effimera di mostrare agli altri quanto si è capaci oppure della voglia di mangiare un pesce selvatico solo per il gusto di farlo.
Nella nostra società non esistono più persone che hanno il bisogno assoluto di mangiare pesci pescati sportivamente per sopravvivere per cui mi sono fermamente convinto che il rilascio delle prede sia doveroso, anzi indispensabile.

Il giorno successivo Gary annunciò che saremmo andati a pescare Silver per cui la solita estenuante attesa mattutina parve ancora più lunga poi, finalmente, partimmo ed il nostro ospite ci spiegò che avremmo pescato dalla barca proprio di fronte ad una spiaggia ove si ammassavano i salmoni, pur non essendoci alcuna foce.
Dopo quaranta minuti di navigazione ci addentrammo in un territorio assai diverso da quelli visti nei giorni precedenti.
Qui le montagne erano poco più che colline con pendenze decisamente meno accentuate e la vegetazione era formata da conifere di alto fusto molto distanziate tra loro. Ciò che più differiva dalle altre zone era la totale assenza di sottobosco per cui si potevano osservare, sino a perdita d'occhio, dolci declivi ammantati di pini, perlopiù spezzati dai forti venti invernali che qui arrivano in tutta la loro potenza direttamente dal mare aperto del Gulf of Alaska, mare in cui stavamo navigando ed in cui abbondavano le lontre marine che ci osservavano incuriosite rimanendo comodamente a galleggiare sulla schiena mentre agitavano le zampe posteriori fuori dall’acqua come in un ridicolo cenno di saluto.
Quel giorno il mare era liscio come una lastra metallica su cui si rifletteva un cielo blu screziato di grandi nuvole bianche e la totale assenza di vento trasformava l’acqua in un immenso specchio in cui cielo, nuvole e montagne si riflettevano perfettamente.

Arrivammo di fronte alla spiaggia e, come tutte le cose in Alaska, questa era di dimensioni al di fuori della nostra realtà. Un semicerchio color ardesia di molti chilometri formava un’immensa baia dall’acqua smeraldo. Tutto lungo la spiaggia, sino a ad una distanza di una quindicina di metri da essa, l’attività dei salmoni era frenetica e migliaia di salti e sguazzi palesavano la loro presenza.
Preparai la mia canna da mosca e legai alla lenza una vistosa Christal Flash, una imitazione di non so che cosa completamente argentata e, in piedi sulla prua, pronto a lanciare, attesi che Gary portasse la barca a distanza utile dall’immenso banco di pesci. A circa trenta metri lanciai e la mia insidia cadde in mezzo ad una grande macchia scura semovente; al primo recupero di lenza sentii uno strattone e ferrai. Quasi subito mi accorsi che non era un silver ma uno dei tanti pink che era rimasto impigliato nel mio amo.
Lancio, affondamento, recupero, strattone, aggancio, slamatura e rilascio; tutto questo si ripeteva in modo ossessivo e ad ogni pesce agganciato per la schiena o per le pinne la mia speranza di catturare dei silver si riduceva anche perché la massa di pesce presente era talmente fitta che non era possibile far lavorare un’esca senza agganciarne qualcuno.
Gary si era addormentato da un pezzo e così la mia figlia più piccola, la più grande come sempre si stava sfamando mentre mia moglie faceva da cuscino alla più piccola.
La barca senza ancora e senza controllo si stava lentamente allontanando dal punto iniziale e dall’ assemblamento di pesci in superficie per cui mi trovai a pescare in acqua più profonda e senza branchi di pesce. La sensazione di sollievo iniziale, dovuta ad alcuni lanci senza incocciare pesci per la pelle, poco a poco lasciò il posto alla distrazione e poi alla noia.
Decisi di tentare un ultimo lancio e poi di svegliare il nostro ospite per farci portare in qualche altro posto. Posai il mio artificiale ad una buona distanza dalla barca e, visto la profondità dell’acqua, lo lasciai affondare parecchio prima di iniziare il recupero che feci in modo estremamente lento. Quando l’esca apparve a pochi metri dalla barca vidi una grossa sagoma uscire dall’acqua profonda per venire ad attaccare la mosca quasi in superficie.
Istintivamente ferrai e mi ritrovai in canna il mio primo Silver.
La reazione fu decisamente superiore a quella che mi aspettavo ed in diversi fasi del combattimento arrivai molto vicino al limite di rottura non solo del filo ma anche della canna.
Impiegai una decina di minuti per portare un Silver di circa nove chili al guadino e, per colpa di una scommessa, fui obbligato a baciare quel pesce.
Fu il primo di una serie di una dozzina di pesci e alla fine della giornata i muscoli delle braccia erano indolenziti dai furiosi combattimenti con avversari compresi tra i cinque e gli undici chili.
Avevo letto molti libri ed articoli che parlano del silver per cui ero piuttosto informato circa l’aggressività e la combattività di quei pesci; nonostante tutto rimasi affascinato da lotte spettacolari fatte di lunghe fughe ed altissimi salti fuor d’acqua che, in tutta la mia attività alieutica, non avevo mai provato.
Sia mia moglie che mia figlia si trovarono con una canna da spinning piegata sino all’impugnatura ed un grosso silver all’altro capo della lenza ma nessuna delle due vinse la propria ardua battaglia però credo che entrambe abbiano assaporato un opportunità che, magari, si ripresenterà in futuro.

Per due giorni pescammo i Silver anche se al secondo pescai con minore convinzione perché mi accorsi che le nostre guide esigevano di trattenere tutti i pesci pescati come scorta per l’inverno e dopo aver rilasciato un paio di splendidi pesci posai l’attrezzatura e mi dedicai all’osservazione.

Furono due giorni cruenti in cui le mie bambine furono obbligate ad assistere allo spettacolo della atavica lotta tra preda e predatore ed impararono, loro malgrado, che non ci sono pareggi o vittorie alternate ma che la vita lascia spazio alla morte sempre per la preda e mai per il predatore.

Parlai a lungo con Gary e cercai di spiegare che l’uccisione di tutti quei pesci non poteva che depauperare, seppur lentamente, l’enorme patrimonio ambientale dell’Alaska raccontandogli che anche in Europa avevamo, parecchi lustri addietro, una moltitudine di pesci ed anche di salmoni e che, grazie alla pesca indiscriminata, non ne erano rimasti quasi più. Lui continuò a sostenere che il prelievo della pesca dilettantistica era nulla a confronto della pesca professionale, non capendo o fingendo di non capire quanto gli stavo dicendo. Paul che aveva girato il mondo in lungo ed in largo ed è un ambientalista attento mi confermò che la mia tesi trovava pieno riscontro nella situazione dei fiumi degli USA orientali dove, sino a pochi anni prima, esisteva una ricca popolazione ittica ormai quasi del tutto annientata.

Dopo questi due giorni di inutili massacri lasciammo l’Emerald Lodge alla volta di Valdez. Da qui partimmo con un van per raggiungere Anchorage ed il viaggio di oltre sette ore fu particolarmente piacevole e potemmo osservare ghiacciai, alte montagne, immense pianure e laghi e fiumi smisurati.

Ad Anchorage passammo la notte in un bed & breakfast adiacente la stazione ferroviaria e da qui, all’alba del giorno successivo, ci imbarcammo sul Alaska Railroad, un treno storico trasformato in attrazione turistica e che attraversa territori completamente selvaggi e bellissimi.
Questa ferrovia fu costruita all’inizio del ventesimo secolo per trasportare l’oro dalla città di Fairbanks sino ad Anchorage e Wittier ove veniva imbarcato sulle navi oceaniche. Durante il periodo del Gold Rush, la grande corsa all’oro che ispirò molti romanzi, i primi cercatori si accorsero che nei dintorni di Fairbanks esistevano grandi giacimenti sotteranei e notevoli quantità di oro miscelati ai sedimenti dei molti fiumi impetuosi che scorrono in questa zona e, in molti, si avventurarono in questi territori ostili alla ricerca di fortuna. Nacquero miniere ed accampamenti di Gold Rusher ovunque ed in breve tempo ci si accorse che il vero problema non era tanto quello di trovare l’oro quanto di trasportarlo in località assai lontane ed abitate per cui fu varato il progetto della ferrovia che oggi copre circa cinquecento miglia di Alaska. La costruzione costò anni di lavoro e parecchie vite umane stroncate dagli stenti, dal freddo, dai lupi e dagli orsi. La ferrovia fu inaugurata nel lontano …. E da allora tutti i giorni, almeno quelli estivi, percorre lo stesso itinerario.

Per i turisti è una buona opportunità per osservare gran parte dei paesaggi caratteristici della terra dei giganti infatti la strada ferrata passa vicinissima a due grandi ghiacciai che si perdono nell’oceano a poche miglia da Wittier, attraversa fittissimi boschi di betulle e conifere nell’area immediatamente circostante Anchorage, si inoltra nella zona dei laghi e dei fiumi più grandi e potenti, si arrampica su catene montuose impervie passando vicino alle pendici del monte Mc Kinley per poi ridiscendere nelle immense zone semi pianeggianti e caratterizzate dalla tundra che da Talkteena si estendono sino all’interno del Denali Park.

Dopo sette ore di treno in mezzo a scenari da cartolina resi ancor più spettacolari dai colori caldi del breve autunno artico giungemmo alla stazione di Denali che io immaginavo come un ameno paesino nordico attorniato da tundra e montagne.
Fummo non poco sorpresi nel vedere la stazione che in realtà era anche il presunto paesino ed era null’altro che una lunga costruzione in legno sperduta tra il nulla. Dietro la stazione erano parcheggiati numerosi autobus con l’indicazione dei Lodges cui appartenevano.
Dopo aver consultato una guida turistica optai per quello che veniva presentato come il meglio organizzato e, non avendo nessuna prenotazione, chiesi al conducente, con una certa apprensione, se c’erano posti liberi e lui, vedendo che viaggiavo con tutta la famiglia, ci accompagnò al Lodge, che raggiungemmo in poco più di dieci minuti, spiegandomi che ci avrebbe cercato una sistemazione da loro oppure in un'altra struttura poco distante.
Il gentilissimo personale ci diede una bellissima stanza e ci spiegò tutti i servizi e le attrazioni disponibili.
Il posto era decisamente meno selvaggio di tutti quelli in cui avevamo vissuto ed era, per me, troppo turistico ma fu un vero toccasana per mia moglie e le mie figlie che poterono godersi la vasca idromassaggio, un ottimo ristorante ed un fornitissimo negozio di souvenirs.
Il giorno successivo, accompagnati da una guida locale, risalimmo alcuni chilometri del Nenama river per andare a visitare una località adibita alla ricerca dell’oro. Mia figlia Giulia seguì con attenzione le spiegazioni mimate della guida e poi, con l’apposita padella, iniziò a setacciare sabbia e detriti e trovò diverse pagliuzze ed una minuscola pepita.
Girovagammo per alcune ore nella tundra lungo il fiume ed assaporai i colori e gli odori di quella terra che stavamo per lasciare, per far ritorno al caos quotidiano.

Il muschio era non più verde smeraldino ma tendeva al giallo ocra e, sopra ad esso, un fitto intrico di piante di mirtilli dalle foglie ormai scarlatte tingeva di rosso ogni cosa; i bassi alberi della tundra spiccavano nel loro tipico colore che, se visto da vicino, è un verde scuro mentre da lontano appare completamente nero.
Da un cielo grigio scendeva una leggera pioggia autunnale che rendeva lucide e scintillanti tutte le cose e l’aria era più fresca e pulita che mai.
Gli unici rumori erano quello dolce e leggero della pioggia, quello potente ma sommesso del fiume e quello acuto e netto delle aquile.
Assaporai tutto questo con la certezza che, destino permettendo, sarei tornato in Alaska e con la curiosità di capire quanto la mia famiglia potesse capire la mia passione per quella terra.

La risposta ai miei quesiti venne poco dopo il nostro ritorno in Italia, non tanto dalle parole e dalle promesse di una moglie che, come spesso avviene, dice di apprezzare cose che io amo più per compiacermi che per convinzione quanto dall’insistenza delle mie figlie per tornare in Alaska, di cui parlano ogni giorno e dal modo di mia moglie di descriverla quando ne parla agli amici.
Ora so che anche loro sono state contagiate dal forte richiamo della terra dei giganti e questo aumenta di molto la possibilità di tornarci, magari, per periodi sempre più lunghi.


Fabrizio Moglia


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