La filosofia della sardina
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Robert Hughes
La filosofia della sardina. Riflessioni di un pescatore mediocre Piemme, Casale Monferrato 2000 (tit.orig. A Jerk on One End, 1999). A cura di Marco Baltieri
Di Robert Hughes conoscevamo già Cultura del piagnisteo, La saga del politicamente corretto (Adelphi, Milano 1994) e il bellissimo Riva fatale. L’epopea della fondazione dell'Australia (Adelphi, Milano 1995), un libro di storia che si legge come un romanzo. Questa volta il saggista e storico dell’arte collaboratore di “Time” fa i conti con la sua passione per la pesca. E’ un libro a tutto campo, come si può intuire scorrendo l’utile (e un po’ ironico) indice dei nomi che sta alla fine del volume, quasi a fare il verso a un testo scientifico “serio”.
Oltre agli immancabili Izaak Walton e Juliana Berners, compaiono una serie di “voci” che non possono che incuriosirci; qualche esempio: “mosca artificiale, preparazione (?), secca e umida (!)”; “canna da pesca, carbonio-Kevlar-grafite, chryptonite, di Hardy, di peso due(?)”; “Gesù Cristo”; “Halford Frederic M.”; “sirena”; “Tarpone atlantico (Megalops atlanticus)”; “pescatore urbano”: insomma, un libro che sicuramente contiene qualche cosa che ci può interessare! Il titolo scelto per la traduzione italiana è, a dire il vero, un po’ “qualunquista” e non fa onore al contenuto: La filosofia della sardina. Riflessioni di un pescatore mediocre; il titolo inglese è molto più “tagliente”, A jerk on one end, qualche cosa come “uno strattone (ma anche un tic nervoso) da una (sola) parte (della lenza)”, allusione svelata subito nelle prime righe: “Un coglione a un capo della lenza che aspetta lo strattone dall’altro capo”. Nel mondo anglosassone questa è una delle più classiche definizioni dello sport della pesca. Riecheggia la perfida formula di Samuel Johnson, secondo cui la pesca consiste in un bastone e uno spago con un verme a un’estremità e un babbeo dall’altra. E chi avrebbe argomenti per controbattervi? Sotto alcuni aspetti è una passione ridicola. Il libro è, ovviamente, un tentativo (riuscito) di far capire che è anche possibile non essere babbei, a patto di usare quel bastone e quello spago con un po’ di cervello (e, ovviamente, di non usare il verme!). Il testo è strutturato in tre parti: Acqua salata, Acqua dolce, Acque agitate. La prima è un piccolo “romanzo di formazione”: Robert Hughes ci racconta come è diventato pescatore (di mare, in Australia), le analogie della pesca con il suo mestiere di scrittore e come si è appassionato alla pesca d’altura sulla costa est degli Stati Uniti. La seconda (Acqua dolce) è dedicata quasi esclusivamente alla pesca a mosca, trattata rapidamente (e sempre con ineffabile ironia) nei suoi aspetti storici, filosofici, psicanalitici, sociologici, ecc. ecc. fino alla “pesca spettacolo” (che però pesca a mosca non è, ma jelly worm, creeper, hoppy frog & co.) del Bass Masters Classic World Championship Tournament con i suoi 100.000 dollari di primo premio. Con Acque agitate si passa alla riflessione sul fenomeno della pesca sportiva; ecco come comincia il capitolo. E’ una mattina limpida e ventosa di maggio e state passeggiando su un molo di Malibu. Vi fermate a una bancarella e comprate un hot dog con salsa e senape. Vi appoggiate alla ringhiera e affondate il primo morso. All’improvviso il vostro esofago è incendiato da un dolore sconvolgente e uno strappo vi sposta violentemente la testa in avanti e in basso. Qualche cosa di duro, aguzzo e metallico si è piantato nella vostra gola. Si tratta di un trauma che la vostra esperienza non ha mai contemplato. Nello sforzo di resistere, correte freneticamente avanti e indietro sul molo, ma la trazione è inesorabile e i vostri polmoni hanno già cominciato a riempirsi di sangue. Cadete giù dal molo sbattendo contro l’acqua in una lotta selvaggia. La forza misteriosa vi trascina sott’acqua. Sul fondo della baia qualche cosa di enorme e sconosciuto vi afferra e, se tutto va bene, vi uccide con un colpo alla nuca. Se siete meno fortunati, la morte arriverà più lenta, per annegamento. In entrambi i casi, forse per buona sorte, non potete sentire o comprendere la Cosa sul fondo marino che sta facendo commenti con i suoi simili su quanto siete stati combattivi. Robert Hughes non punta solo su questi aspetti emotivi, ma sciorina una serie impressionante di dati sui danni giganteschi che la pesca (soprattutto professionale, a dire il vero) provoca alla vita dei mari e dei fiumi. La pesca (soprattutto quella “sportiva”) deve invece rappresentare un mezzo per capire il nostro posto nelle catene vitali. La gioia della pesca risiede nella cattura, non nell’uccisione: e per gran parte del suo svolgimento, anche nella non-cattura, nel contatto con il mondo naturale. I pescatori sportivi vedono solo un cantuccio dell’immensa vita acquatica del mondo. Ma quel cantuccio hanno la possibilità di guardarlo nel modo più appagante e completo. Qualche appunto critico, per finire, sulla traduzione: sarebbe bastato far rileggere il testo a un qualunque pescatore per evitare una serie notevole di ridicoli “scivoloni” (o vere e proprie assurdità). Qualche esempio a caso: resistenza (per frizione), bambù divisi (per refendu), verricello (per mulinello), una scuola (un banco di pesci)... Marco Baltieri
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