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Racconto tra verità e fantasia...

Perchè sono diventato un convinto praticante
del catch and release
 
Italia  08/05/07 di Maurizio Benazzi (Zio Ben)


Nell’estate del ’80 avevo 23 anni, ed erano già diversi anni che praticavo con scarso profitto la pesca con la mosca, provenendo da altre esperienze, principalmente dallo spinning.
Per inseguire la mia passione crescente, spesso mi recavo sulle sponde del torrente Aveto che scorre nella vallata accanto a quella dove si trova il mio paese nel quale avevo trascorso buona parte della mia infanzia, prima del tempo della scuola. Malgrado i buoni insegnamenti dei miei nonni , zii e genitori, non mi comportavo affatto bene nei confronti della Natura che mi ospitava, nel senso che, uccidevo regolarmente i pesci che catturavo, strappavo con indifferenza le fronde delle piante, calciavo i sassi che mi si paravano davanti e oltretutto insultavo le acque del fiume se solo penetravano nei miei stivali; gettavo inoltre a terra i mozziconi delle sigarette....un giovinastro sgradevole !

Mi trovavo al paese in licenza ordinaria dato che avevo quasi terminato il servizio militare ed una sera che mi ero attardato più del solito lungo il corso d’acqua.......accadde qualcosa che riuscii a raccontare ad altri solo dopo molto tempo.
Cadde improvvisamente l’oscurità mentre ancora mi trovavo con l’acqua all’altezza delle ginocchia scrutandone la superficie, alla ricerca delle” bollate” dei fantomatici temoli, che quasi odiavo, in quanto riuscivo a catturarli (ed ucciderli) solo casualmente.

Poi intorno a me accadde qualcosa: tacquero gli uccelli canterini sparirono gli insetti che attraevano i pesci verso la superficie, ebbi persino la curiosa sensazione che il torrente smettesse di fluire, che tutto si fosse fermato, come in attesa di un evento o come quando qualcosa di temuto si presenta sulla scena e tutto e tutti manifestano timore, ritraendosi dalle loro attività consuete.
Da parte mia avvertii una sensazione di sordità come quando da bambini per gioco ci si turano gli orecchi.
Quando mi voltai per raggiungere la riva, intravvedevo a mala pena la linea degli alberi svettanti, stagliarsi contro il cielo scarlatto che mi guardavano adesso con occhi diversi ...direi inquietanti. Le cuspidi delle piante si erano unite fino a toccarsi fra di loro in un curioso tete a tete...e concentravano i loro sguardi attoniti su di me. Poi una nebbiolina mistica avvolse il tutto, rendendo il paesaggio davvero suggestivo...
Mi sentii un poco a disagio anche se conoscevo perfettamente quei luoghi che frequentavo da parecchio tempo e cercai istintivamente con lo sguardo la rassicurante traccia del sentiero che attraverso la macchia fitta dei faggi portava al guado poche centinaia di metri verso valle,ma.....
Non vidi più traccia alcuna. Da predatore mi sentii preda...cercai di cacciare via questa sensazione...

Guardai meglio forzando la vista, intanto che uscivo dall’acqua del torrente e mi portavo verso il bosco...niente. Qualcosa ora turbava le mie sicurezze. All’interno del bosco il buio era totale, e non era ancora sorta la luna. L’umidità cominciava ad avvolgere i miei sensi e gli odori tipici del bosco a me così noti adesso mi sgomentavano.

Allora improvvisamente mi tornarono alla mente alcuni passaggi, ( non ricordo chi fosse l’autore) di un racconto riguardante l’antico dio Pen adorato dagli antichi Liguri montani, un dio che si manifestava attraverso la natura e specialmente amava assumere la forma del torrente Aveto o Avanto come era chiamato dai nativi di allora, oppure assumeva le forme di albero o di animale, ma che risiedeva (pare) sulla cima di una montagna maestosa che gli uomini contemporanei chiamano Monte Penna e che si trova a qualche chilometro dal teatro di questa avventura.

Poi sentii nettamente mormorare, mentre mi addentravo nel bosco. Un respiro gelido che penetrava le mie ossa accompagnandosi ad una sorta di lamento.....un brontolio cupo un hhmm...hhmm di disapprovazione. Ma non stavo sognando? Il terrore mi afferrò per le spalle !

Cercai di muovermi più in fretta, ma il sentiero che mi rendeva così sicuro alla luce del sole ora non c’era più, ed al suo posto rami caduti e pietre rotolanti rendevano il mio incedere goffo, disarticolato, ed anche un tantino buffo. Dov’era il baldo giovane che poco prima si comportava come fosse stato lui il padrone di tutto?

La lezione era appena cominciata. I rami bassi degli alberi che poc’anzi spezzavo nel mio incedere sprezzante ora mi attendevano per percuotermi il volto, le mani..e..sferzarmi le natiche..così come si picchia un bambino che ha combinato una marachella. Sotto i miei piedi ad un tratto il terreno franò facendomi finire col volto nel fango della riva e rendendo comici i miei tentativi per risollevarmi. Poi fui gettato a terra volto in avanti e caddi per metà nelle acque gelide di Aveto attraverso le quali mi sentivo osservato da colui che, sdegnato, stanco di me, dei miei soprusi e del poco rispetto che avevo sempre manifestato nei confronti delle creature che Egli amava e che proteggeva da tempo immemore...sì perchè di questo doveva trattarsi.
Mi ritrovai aldilà del guado non so come, percosso, umiliato, bagnato come un pulcino e continuavo ad udire un forte respiro sopra di me che percorreva le cime dei faggi, l'ansimare di un cacciatore che sovrasta la sua preda...e la tiene in pugno, pregustando il piacere della cattura. Nella mia fuga disordinata mi ferii ad una mano con una scheggia di legno che strappai coi denti e inconsciamente riposi in una tasca del mio prezioso gilet da pescatore.
Poi di colpo eccomi vicino alla mia auto nuova, che mi attendeva sulla strada. Sputato fuori dal bosco,come un corpo estraneo, vomitato come la borra del gufo, espulso come un estraneo indesiderato, cacato come uno stronzo!

Adesso colle lacrime che mi rigavano le guance, stavo guidando,ma la strada...la strada! , le curve, non erano più al loro posto, esse giungevano troppo presto o troppo tardi rispetto a dove le avevo lasciate. Dietro di me nel buio che si richiudeva sulla mia auto un turbine silenzioso di ombre indefinibili...spettrali, si avvicendavano...per scacciarmi, e colpivano a tratti con ali ed unghie che io non potevo vedere, i vetri e graffiavano le lamiere che stridevano. Dentro la mia testa un coro confuso di voci che si sovrapponevano, mi gettavano nel labirinto dell’irrazionale; mi fecero gustare la dimensione del terrore! Così. quando intravvidi sotto la fioca luce di un lampione il cartello al bivio che indicava la direzione per il mio paese mi sentii rinascere. Ma la nebbia che ora era diventata un muro impenetrabile anche alla luce dei fari, mi costrinse a risalire sino al valico di Fregarolo con il rapporto più basso del cambio, ed i minuti trascorrevano eterni racchiuso com’ero in quel mare di gelida solitudine. Pregavo e ringraziavo Lui, il Dio per non avermi mandato i suoi terribili emissari. L’orso che mi avrebbe sbattuto come un fuscello, il lupo che mi avrebbe fissato freddo prima di finirmi col suo morso terribile od il falco che avrebbe strappato le mie viscere distrattamente come io distrattamente mi ero sempre comportato. Ora sapevo quale era esattamente il mio posto e non lo avrei più dimenticato!

Venne il mattino e fui felice di svegliarmi nel mio letto. Adesso tra le mura domestiche l’avventura occorsami mi pareva già lontana...Dovevo aver sognato il tutto.....ma si! Controllai la mia attrezzatura ed i miei abiti di pesca che penzolavano dal solito attacca -panni: tutto a posto , nessuna traccia tradiva quello che in fondo era stato solo un brutto sogno....nemmeno c’ero stato a pescare il giorno prima ! ... Che stupido! ..Certo che tutto mi era sembrato così reale... ma si sa certi sogni riescono a spaventarci perchè il nostro subconscio sa esattamente dove andare “ a pescare “ le sensazioni giuste per terrorizzarci.

Certo però,.... che lezione avevo appreso...! Vergognandomi un poco programmai quasi subito una gita di pesca, questa volta vera. Nel pomeriggio raccolsi la mia attrezzatura: la canna, gli stivali ed il gilet...già il gilet !
Frugai nelle sue tasche, tutto era al suo posto. Le scatole con le mie mosche il filo da pesca, le forbicine. Affondai le dita in un taschino interno dove normalmente quasi automaticamente riponevo piccoli oggetti che raccoglievo estemporaneamente nelle mie battute di pesca....una piumetta od una mosca trovata impigliata tra i rami.......un lungo brivido mi percorse quando tra le mie dite rimase presa una piccola scheggia di legno sporca di sangue rappreso ....col cuore che mi balzava improvvisamente in gola portai la mano davanti agli occhi per osservare una piccola, lurida, maledetta cicatrice quasi rimarginata sul dorso della mia mano destra.

Fuori il sole si era velato e tra i rami degli alberi gli uccellini della valle non cinguettavano più non si udiva il suono intermittente della fontana che sta nella piazza del mio paese....il grigiore dell’inverno, la luce fredda di una eclissi di sole e quella dannata sensazione di sordità......poi un suono ormai terribilmente familiare riempi quel vuoto assurdo, quella assenza tragica di rumori.....hhmmm....hhmm...hhhhhmmmmm !!

Nella mia testa scorreva un nastro di sensazioni; rumori ed odori mescolati ad un sapore di deja vù !

Forse durò solo un attimo, ma rividi mio padre fanciullo saltare sull’albero di susine allorquando sul far della sera una forma tondeggiante e pelosa precipitando giù dalla collina senza far rumore e senza coricare l’erba su cui rotolava, lo sfiorò senza colpirlo, rividi mio nonno Agostino allorquando pastorello si voltò ad osservare incuriosito un passante sui sentieri del monte scoprendolo cavo come una sorta di sarcofago, e mio nonno Giovanni, il quale giurava che da giovane carbonaio fu destato dallo sferragliante scalpiccio di una mandria di cavalli che percorrevano il greto asciutto del torrente di Tzuoe d’ Asco senza però che nè lui nè il suo compare li potessero minimamente scorgere.
Mi tornarono alla mente i racconti dei vecchi nelle serate che da bambino trascorrevo nell’osteria di famiglia, quando mi parlavano con pacata rassegnazione delle processioni notturne di preti e chierici con tanto di baldacchino e ceri che apparivano e sparivano improvvisamente nella notte.
Saranno forse solo leggende di una popolazione vissuta per cinquecento anni nell’isolamento, senza strade rotabili in paesini abbarbicati sulle montagne dove i bimbi perivano nei lunghi inverni di carestia, dove si moriva per il “male du taggiun” o il mal di ventre dove gli uomini portavano con orgoglio il gozzo e a quarant’anni erano ormai vecchi e le donne vivevano ancor meno coi loro poveri uteri sfondati dalle innumerevoli gravidanze concepite sui pagliericci di erba secca, e che partorivano come animali spesso rendendo l’anima a Dio liberate da quella esistenza grama dalle setticemie frutto dell’ignoranza coltivata dai preti di quel tempo che ammonivano quei poveri peccatori a mettere al mondo tutti i figli che venivano..per poi farne..carne da cannone!

Sentivo persino l’odore del letame che traspirava dai loro vestiti logori e che impregnava le carte da gioco, l’odore del vino versato e della legna che bruciava nella grande rassicurante stufa. Quegli uomini ingenui che a piedi, con una forma di formaggio sotto il braccio, si erano recati sino a Torino per implorare il Gen. Lamarmora che a suo tempo avevano ospitato e nutrito di lasagne al tocco di funghi di concedere loro l’intercessione presso Sua Maestà il Re al fine di ottenere di potere anch’essi costruire una chiesetta nel loro paesello.
Quegli uomini che trovavano la forza di spezzare le catene di prigionieri di guerra e fuggire inseguiti come lepri dalle truppe napoleoniche, di guadare a nuoto il fiume Ticino arrampicarsi di corsa su per le colline dell’Oltrepò e da lassù salutare con la mano i loro inseguitori ormai irrimediabilmente distanziati per fare ritorno lassù, sempre lassù, solo lassù . Di fuggire nella neve alta inseguiti come selvaggina dai Carabinieri che li volevano riportare al fronte a combattere una guerra che non era la loro. La loro guerra essi la combattevano tutti i giorni sino dalla loro nascita. Fuggire, sempre fuggire fuggire, sempre! Fuggire per la vita, per la Libertà di potere essere se stessi uguali solo a se medesimi !

Ma a questi uomini ( e donne ) noi dobbiamo la nostra riconoscenza per averci consegnato fiduciosi, una terra così bella, domata la Natura, dopo secoli di privazioni ed al lavoro di quei frati Benedettini (credo) che a mani nude liberarono il torrente Aveto dalla vasta palude di Massapello, nella quale veniva inghiottito, per renderlo libero di fluire lucente e terso lungo quella che sarebbe stata la sua valle.
Passò molto tempo ma poi tornai a frequentare quelle acque ammantate di boschi e di nebbie ma da allora vi posso assicurare, che il mio approccio al fiume e alla Natura in particolare è molto cambiato...mi sento molto più saggio adesso e rispettoso! E sono certo che anche voi capirete come questa avventura abbia contribuito a cambiarmi .

Queste valli sono rimaste così da molto tempo; qui non contano le stesse cose che a noi uomini attuali appaiono scontate...no! Ce li possiamo scordare certi comportamenti ! Qui non portano da nessuna parte! Semplicemente sarete parte del paesaggio o meglio di un organismo gigantesco...un organismo vivente. Come in un corpo umano imparerete che se solo un dente vi duole, per esso tutto il corpo soffre ! Eccome ! A noi comunque la scelta : o integrati o espulsi !

Anche voi se avrete l’opportunità di frequentare la Valle del dio Pen, tenete conto vi prego di quanto è accaduto a me, e non sentitevi a disagio se proverete come me un senso di profondo rispetto per tutta quella bellezza selvaggia che vi circonda...Il dio Pen vive e vigila ancora su quella valle !


Maurizio Benazzi


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